Giurisprudenza codice della strada e circolazione stradale
Sezione curata da Palumbo Salvatore e Molteni Claudio
Cassazione Civile, Sezione terza, ordinanza n. 2366 del 24 gennaio 2024
Corte di Cassazione Civile, Sezione III, ordinanza numero 2366 del 24/01/2024
Circolazione Stradale - Artt. 171 e 193 del Codice della Strada - Sinistro stradale - Risarcimento - Uso del casco protettivo per gli utenti di veicoli a due ruote - Mancato utilizzo - Elementi congetturali e deduzione logica - Differenze - Gli elementi congetturali proposti dall'utente di veicolo a due ruote coinvolto nel sinistro stradale e relativi alla mancanza del casco protettivo sono frutto di una mera supposizione che si fonda su fatti incerti, e che viene dedotta da questi in via di semplice ipotesi, non costituiscono una prova presuntiva frutto di una deduzione logica che, come tale, si deve fondare su fatti certi e si deve dedurre da questi sulla base di massime d'esperienza o di ciò che accade più spesso.
RITENUTO IN FATTO
1. (Soggetto 1) ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 82/18, del 18 gennaio 2018, della Corte d'appello di (Omissis), che - accogliendo solo parzialmente il gravame dallo stesso esperito avverso la sentenza del 24 luglio 2012 del Tribunale di (Omissis) - ha condannato, in solido, (Soggetto 2) e la società (Soggetto 3) Assicurazioni Sai Spa a risarcirgli il danno subito in conseguenza del sinistro occorsogli in (Omissis), il 13 ottobre 2002, in qualità di terzo trasportato sul ciclomotore di proprietà e condotto dal (Soggetto 2), assicurato per la "RCA" dalla predetta società, liquidando la somma complessiva di Euro 273.791,00, di cui Euro 158.460,00 per danno biologico e Euro 115.331,00 per ridotta capacità lavorativa, oltre interessi legali dalla pronuncia della sentenza del Tribunale fino al soddisfo.
2. Riferisce, in punto di fatto, l'odierno ricorrente che, a seguito dell'incidente stradale verificatosi nelle circostanze di tempo e luogo sopra meglio descritte (e indicato come conseguente ad un'azzardata manovra di sorpasso, eseguita a velocità sostenuta dal conducente del motociclo), egli rovinava al suolo, perdendo i sensi e subendo gravi lesioni personali. Trasportato presso il centro di rianimazione di un nosocomio (Omissis), gli venivano diagnosticati "politrauma con doppia frattura cranica, ematoma sotto durale acuto T-P Sin e focolai lacero - contusivi cerebrali, fratture costali multiple con versamento pleurico, frattura bifocale della clavicola destra".
All'esito della guarigione, inoltre, residuava "un'importante invalidità permanente, con grave compromissione dell'intera capacità lavorativa", risultando egli "totalmente inabile sia all'attività di marinaio di bordo" (che aveva ripreso a svolgere dall'aprile 2002), "sia a qualsiasi altra forma di lavoro".
Fallite le trattative con la società assicuratrice del (Soggetto 2) per una bonaria composizione della controversia, il (Soggetto 1) adiva il Tribunale di (Omissis), chiedendo la condanna di entrambi i convenuti, in solido, a risarcirgli tutti i danni subiti.
Istruita dal primo giudice la causa anche attraverso lo svolgimento di consulenza tecnica d'ufficio medico-legale, l'odierno ricorrente, prima del deposito dell'elaborato da parte dell'ausiliario del giudice, produceva i verbali con cui - a seguito di visite mediche del 1° agosto 2005 e del 27 aprile 2006 - veniva giudicato, dalla Commissione ASL di (Omissis) 4 di prima istanza, "invalido con totale e permanente inabilità lavorativa al 100%".
Ciò premesso, la decisione di primo grado - che ipotizzava il coinvolgimento nel sinistro di una vettura rimasta non identificata e, dunque, il paritetico concorso colposo del suo conducente con il (Soggetto 2), nonché un contributo dello stesso (Soggetto 1), nella misura del 25%, nella causazione dell'evento dannoso, in ragione del mancato uso del casco protettivo - accoglieva la domanda, ma liquidava il danno non patrimoniale in Euro 52.800,00, oltre interessi e rivalutazione, nonché quello patrimoniale in Euro 38.444,00.
Tali importi costituivano il risultato della decurtazione del 75% della somma stimata come dovuta per ciascuno dei due danni (avendo il Tribunale ritenuto di dover sommare il 50%, in ragione della responsabilità non attribuibile al (Soggetto 2) ma all'altro conducente rimasto sconosciuto, con il 25%, a titolo di concorso dello stesso danneggiato), applicando, inoltre, al danno patrimoniale un'ulteriore decurtazione del 40%, in ragione della affermata mancanza di stabilità dell'occupazione del (Soggetto 1)
Esperito gravame dall'attore, il giudice di appello lo accoglieva solo in relazione alla disposta decurtazione del 50%, applicata in relazione al concorso nella causazione del sinistro del conducente del veicolo rimasto non identificato, rideterminando la condanna solidale del (Soggetto 2) e del suo assicuratore nella misura meglio indicata in premessa.
3. Avverso la sentenza della Corte (Omissis) ha proposto ricorso per cassazione il (Soggetto 1), sulla base - come detto - di tre motivi.
3.1. Il primo motivo denuncia - ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. - la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227, 2697, 2727 e 2729 cod. civ. e degli artt. 40 e 41 cod. pen., nonché dell'art. 116 cod. proc. civ., quale "errore di sussunzione" in riferimento all'art. 171 cod. strada. Viene denunciato, altresì, un duplice "error in procedendo" (il primo prospettato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., il secondo anche ai sensi del successivo n. 5), deducendo, nel primo caso, violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ., "per inesistenza del requisito motivazionale della sentenza", nonché violazione dell'art. 115 cod. proc. civ. "per contrasto della sentenza con il senso comune e con gli invalicabili limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", oltre che violazione dell'art. 116 cod. proc. civ., in relazione all'art. 2700 cod. civ., mentre, nel secondo caso, si denuncia "l'omesso esame del contenuto della CTU riguardo alla ininfluenza in concreto del casco sull'eziologia delle lesioni": si censura la sentenza impugnata là dove ha affermato che il terzo trasportato non faceva uso del casco di sicurezza, ritenendo tale circostanza idonea - "ex se", secondo la censura del ricorrente - ad integrare il concorso del danneggiato nella causazione dell'evento dannoso. A tale conclusione, tuttavia, la Corte territoriale sarebbe pervenuta sulla base di "fatti storici privi di gravità, precisione e concordanza". Essa, infatti, aveva valorizzato la circostanza che la polizia municipale, giunta sul luogo del sinistro, non aveva rinvenuto il casco "né ancora al capo, né almeno nelle vicinanze del corpo esanime del (Soggetto 1)", avendo, anzi, individuato un solo casco, che era però "allacciato sotto lo sterzo del ciclomotore del (Soggetto 2)". Costui, a propria volta, in sede di interrogatorio formale innanzi al primo giudice, aveva confessato di essere in possesso di un solo casco, circostanza anche questa valorizzata dalla Corte territoriale, senza però tenere conto - sottolinea il ricorrente - che il (Soggetto 2) aveva affermato, in quella stessa sede, come il casco fosse stato indossato dal trasportato. Così ragionando, tuttavia, la sentenza impugnata, sebbene abbia ritenuto "abbastanza strana" la circostanza che l'infortunato non avesse riportato ferite al capo - come invece sarebbe attestato, secondo il ricorrente, dalle cartelle cliniche in atti - avrebbe compiuto il proprio ragionamento inferenziale sulla base indizi privi dei requisiti di cui all'art. 2729 cod. civ., violando, anzi, il divieto della "praesumptio de praesumpto". Essa, infatti, avrebbe dato rilievo a dati meramente ipotetici, quali la ricerca del secondo casco da parte degli agenti di polizia municipale accorsi sul posto o la mancata opposizione del verbale con cui era stata contestata l'infrazione ex art. 171 cod. strada.
Inoltre, la ricostruzione proposta dal giudice di appello sarebbe in contrasto con le risultanze di atti pubblici, quali sono le cartelle cliniche dell'azienda ospedaliera pubblica prodotte in giudizio, che attestano l'assenza di abrasioni al capo dell'infortunato, donde la violazione sia dell'art. 2900 cod. civ. che dell'art. 116 cod. proc. civ., avendo la Corte (Omissis) erroneamente valutato secondo il suo prudente apprezzamento le risultanze di una prova legale.
Si censura, poi, la sentenza impugnata per l'omessa considerazione delle risultanze della CTU (in questa materia, peraltro, "percipiente"), la quale non solo avrebbe dato atto, anch'essa, dell'assenza di abrasioni al capo della vittima del sinistro, ma anche espresso una valutazione di ininfluenza dell'uso del casco rispetto all'eziologia delle lesioni subite dal (Soggetto 1). Di conseguenza, con riferimento a tale profilo, è pure contestato al giudice di appello un errore di sussunzione in relazione all'art. 171 cod. strada per aver contravvenuto al principio, costantemente enunciato da questa Corte, secondo cui l'omesso uso del casco protettivo da parte di un motociclista vittima di incidente può essere fonte di corresponsabilità del medesimo, ma a condizione che tale infrazione abbia concretamente influito sulla eziologia del danno, circostanza che può essere accertata anche d'ufficio dal giudice, giacché riconducibile alla previsione di cui all'art. 1227, comma 1, cod. civ.
La motivazione della sentenza, pertanto, sarebbe affetta da contraddittorietà manifesta e insanabile, donde la violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ.
Infine, si censura la sentenza impugnata in quanto - come dedotto, in via di subordine, dall'odierno ricorrente - sarebbe, comunque, errata la riduzione del 25% applicata a tutte le somme liquidate a titolo di danno biologico e non a quella relativa alle sole lesioni riportate al capo.
3.2. Il secondo motivo denuncia - ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. - violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227, 2697, 2727 e 2729 cod. civ. e degli artt. 40 e 41 cod. pen., nonché dell'art. 116 cod. proc. civ., quale "errore di sussunzione" in riferimento all'art. 171 cod. strada, nonché "error in procedendo", ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ., "sub specie" di violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ., "per inesistenza del requisito motivazionale della sentenza", nonché di "errata qualificazione della domanda e nullità della sentenza per corrispondenza tra chiesto e pronunciato" ex art. 112 cod. proc. civ.
Si censura, in questo caso, la sentenza impugnata per aver "omesso di rideterminare il grado della colpa" del danneggiato, assumendo l'esistenza di "un giudicato interno sul punto", e ciò malgrado esso (Soggetto 1) "avesse contestato interamente la propria responsabilità con l'atto di appello", chiedendo (è riprodotto il rigo 13 di pag. 37 di tale atto) "rideterminarsi gli importi spettanti a titolo di risarcimento di tutti i danni subiti, con condanna alle ulteriori somme ritenute di giustizia".
Orbene, secondo il ricorrente, la contestazione di ogni addebito in ordine alla propria responsabilità non poteva che implicare - sul piano logico, prima ancora che giuridico, e in applicazione del principio di continenza - la richiesta di limitare la condanna ai soli danni riconducibili causalmente alla propria condotta (sono richiamati un serie di arresti di questa Corte, in particolare Cass. Sez. 3, ord. 30 maggio 2017, n. 13527).
3.3. Il terzo motivo denuncia, con riferimento alla liquidazione del danno patrimoniale, la violazione e falsa applicazione - ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. - degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056, 2697, 2727 e 2729 cod. civ. e dell'art. 4 della legge 26 febbraio 1977, n. 39, trasfuso nell'art. 137 cod. assicurazioni, "in merito al diritto del danneggiato di essere integralmente risarcito", nonché dell'art. 116 cod. proc. civ., quale "errore di sussunzione". È, inoltre, denunciata la ricorrenza, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ., di un error in procedendo, e ciò sub specie di violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ. "per inesistenza del requisito motivazionale della sentenza", oltre che dell'art. 115 cod. proc. civ., "per contrasto della sentenza con il senso comune e con gli invalicabili limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", e, infine, dell'art. 116 cod. proc. civ., in relazione all'art. 2700 cod. civ.
Si censura, come detto, la liquidazione del danno patrimoniale sotto un duplice, concorrente profilo.
Per un verso, infatti, il ricorrente lamenta che, al pari del primo giudice, anche il giudice di appello - pur avendo fondato la liquidazione sul corretto presupposto che il danno patrimoniale è risarcibile autonomamente dal danno biologico, quando vi sia la prova che il soggetto leso svolgeva, o presumibilmente avrebbe svolto, un'attività lavorativa produttiva di reddito - ha esaminato "la sola prima alternativa", visto che, in ragione della ritenuta assenza di stabilità del lavoro di marittimo, ha deciso di confermare, qualificandola come "salomonica", la scelta di ridurre del 40% la somma liquidata.
Sotto questo profilo si censura la sentenza impugnata perché essa, lungi dal ricorrere a tale criterio "personalissimo" di liquidazione, avrebbe dovuto fare applicazione dell'art. 4 della l. n. 39 del 1977, applicabile all'infortunistica stradale giusta la previsione dell'art. 137 cod. assicurazioni, ovvero del criterio del triplo della pensione sociale, senza procedere ad alcuna decurtazione.
Difatti, delle due l'una: o si sarebbe dovuta ritenere quella di marinaio una occupazione stabile, liquidando allora il danno in base al reddito rinveniente per tale attività; ovvero, all'opposto, ritenuta la stessa un lavoro soltanto saltuario, avrebbe dovuto trovare Spazio il criterio del triplo della pensione sociale.
Per altro verso, il ricorrente si duole del fatto che la Corte (Omissis) (come già il locale Tribunale), limitandosi a richiamare acriticamente le conclusioni del CTU, abbia valutato la riduzione della capacità lavorativa nella misura del 50%, ancorché ben due Commissioni mediche, organi della Pubblica Amministrazione, si fossero espresse per un'inabilità totale con incollocabilità al lavoro, secondo quanto evidenziato, all'ausiliario del giudice, dallo stesso tecnico di parte.
La sentenza impugnata avrebbe, dunque, omesso di esaminare detti documenti, così disattendendo le risultanze di atti pubblici (in violazione dell'art. 2700 cod. civ. e 116 cod. proc. civ.), sottraendosi anche al dovere di motivare sulle critiche puntuali e dettagliate mosse dal tecnico di parte a quello d'ufficio.
Si censura, infine, come "tecnicamente improprio" il concetto di capacità lavorativa semi-specifica, individuato dal CTU (e al quale fa riferimento la sentenza impugnata "come alternativa") per la liquidazione del danno.
4. Sono rimasti intimati il (Soggetto 2) e il suo assicuratore.
5. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell'art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
6. Il ricorrente ha depositato memoria.
7. Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
8. Il ricorso va rigettato.
8.1. Il primo motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato.
8.1.1. Nello scrutinarlo, occorre muovere dal rilevo che la sentenza impugnata, in relazione al mancato uso del casco protettivo (un diverso discorso dovrà compiersi per la censura che investe il supposto difetto di incidenza causale di tale condotta rispetto alla verificazione dell'evento dannoso), non ha operato alcun ragionamento presuntivo. Essa, piuttosto, ha ritenuto di valorizzare - nel coacervo delle risultanze istruttorie - la circostanza che i vigili urbani, accorsi sul luogo del sinistro, constatarono che il (Soggetto 1) non indossava tale dispositivo di protezione, rinvenendone uno solo, allacciato sotto lo sterzo del motociclo, tanto che sia il conducente che il terzo trasportato vennero contravvenzionati ai sensi dell'art. 171 cod. strada.
È, viceversa, il ricorrente a prospettare l'uso, in modo per vero assai opinabile, delle presunzioni, affermando - cfr. pag. 29 del ricorso - che la ricostruzione del fatto fornita dalla Corte territoriale "non appare quella più probabile". È, dunque, egli stesso a formulare una serie di ipotesi - fondate sulle risultanze delle certificazioni mediche, delle quali si dirà di seguito (che, a suo dire, non darebbero conto della presenza di abrasioni al capo di esso (Soggetto 1)) - per "spiegare" il proprio rinvenimento, a testa scoperta, all'esito del sinistro. In particolare, il (Soggetto 1) afferma (pag. 18) che sarebbe stato "naturale concludere che il sig. (Soggetto 2) o uno dei passanti, nell'atto di prestargli i primi soccorsi e verificarne le condizioni, gli avesse slacciato il casco dalla testa" (circostanza, peraltro, che il (Soggetto 2) non ha confermato nel proprio interrogatorio, stando alla ricostruzione del suo contenuto operata nel ricorso, dalla quale emerge che egli si limitò a riferire che il terzo trasportato indossava il casco), assicurandolo poi al motociclo con l'intento "di evitarne lo smarrimento". Così ragionando, tuttavia, e fermo quanto si dirà a proposito della non incontrovertibilità delle risultanze che emergerebbero dalle certificazioni mediche in atti, è il ricorrente ad affidarsi ad una serie di elementi congetturali, evidentemente non idonei ai fini ed agli effetti di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ., visto che la prova presuntiva è "una deduzione logica", che, come tale, "si deve fondare su fatti certi" (nella specie, unicamente il rinvenimento della vittima del sinistro senza casco) e "si deve dedurre da questi sulla base di massime d'esperienza o dell'id quod plerumque accidit", mentre la congettura, invece, "è una mera supposizione", che "si fonda su fatti incerti" e "viene dedotta da questi in via di semplice ipotesi" (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 28 giugno 2019, n. 17421, Rv. 654353-01; in senso analogo anche Cass. Sez. 6-3, ord. 28 settembre 2020, n. 20342, Rv. 65925001).
Di conseguenza, nessuna violazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ. è ravvisabile nel caso che occupa il collegio, perché il giudice si è limitato ad un corretto apprezzamento delle risultanze istruttorie, come tale non sindacabile nella presente sede di legittimità, visto che "spetta al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge" (cfr., da ultimo, tra le innumerevoli, Cass. Sez. 6-1, ord. 13 gennaio 2020, n. 331, Rv. 656802-01). Tale conclusione s'impone, vieppiù, in considerazione di quanto la sentenza impugnata osserva a proposito delle certificazioni mediche in atti e delle valutazioni espresse dal CTU sulla base di esse. Secondo la sentenza impugnata, infatti, quella formulata dal proprio ausiliario - in merito all'uso del casco da parte del (Soggetto 1), al momento del sinistro - è stata "solo un'opinione", peraltro basata "sul referto di ingresso al Pronto soccorso ospedaliero". Nello stesso, invero, si faceva riferimento a "trauma cranico con epistassi - f.l.c.", adoperandosi una "sigla che il CTU ha interpretato come "focolai-lacero contusi" e non come "ferita lacero-contusa", anche perché nel reparto di neurochirurgia il quadro clinico venne poi refertato" (del tutto comprensibilmente, può aggiungersi in questa sede, essendo l'attenzione di quelli specialisti tutta concentrata sul grave quadro neurologico del paziente, immediatamente sottoposto a "cranectomia temporo-parietale sinistra", per l'evacuazione dell'ematoma) quale "trauma commotivo con frattura parietale, ematoma subdurale acuto, P.T. pnx. e focolai multipli lacero-contusi".
Orbene, premesso che il ricorrente non si fa carico di confutare tale affermazione, basata sulla non piena sovrapponibilità tra le risultanze del referto di ingresso al Pronto Soccorso e quelle del referto del reparto di neurochirurgia, non confrontandosi, così, con l'effettivo "decisum" della Corte territoriale, deve rilevarsi che la sua censura, sul punto, si esaurisce nel rilievo (pagg. 5 e 15) che, ricoverato esso (Soggetto 1) "presso l'Unità Operativa di NCH", gli fu diagnosticato "politrauma con doppia frattura cranica, ematoma sotto durale acuto T-P Sin e focolai lacero contusivi cerebrali, fratture costali multiple con versamento pleurico, frattura bifocale della clavicola a destra".
Nondimeno, di tale documento non viene indicata la collocazione né nel fascicolo di ufficio né in quello di parte, donde l'inammissibilità della censura, in particolare quella di violazione degli artt. 2700 cod. civ. e 116 cod. proc. civ., fondata sull'assunto che il giudice di appello avrebbe disatteso le risultanze di un atto destinato a fare fede fino a querela di falso.
Difatti, "sono inammissibili le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l'esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità" (Cass. Sez. Un., sent. 27 dicembre 2019, n. 34469, Rv. 656488-01).
Sempre sulla circostanza della utilizzazione, o meno, del casco protettivo da parte dell'odierno ricorrente, in occasione del sinistro, inammissibili sono pure le censure di violazione dell'art. 115 cod. proc. civ. e di motivazione contraddittoria.
Invero, "la violazione dell'art. 115 cod. proc. civ." - norma che sancisce il principio secondo cui il giudice decide "iuxta alligata et probata partium" - "può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli" (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640192-01; Cass. Sez. Un., sent. 30 settembre 2020, n. 20867, Rv. 65903701).
Quanto, invece, al dedotto vizio motivazionale va rammentato che, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. - nel testo "novellato" dall'art. 54, comma 1, lett. b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, 134 (applicabile "ratione temporis" al presente giudizio) - il sindacato di questa Corte è, ormai, destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il "minimo costituzionale" (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonché, "ex multis", Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 1, ord. 30 giugno 2020, n. 13248, Rv. 658088-01).
Il vizio è, dunque, ravvisabile solo in caso di motivazione "meramente apparente", ovvero, oltre che nell'ipotesi di "carenza grafica" della stessa, quando essa, "benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento" (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonché, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01), o perché affetta da "irriducibile contraddittorietà" (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 63, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da "affermazioni inconciliabili" (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre "resta irrilevante il semplice difetto di "sufficienza" della motivazione" (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).
Nella specie, la Corte ha reso intellegibile il proprio percorso argomentativo, senza che lo stesso evidenzi profili "intrinseci" di contraddittorietà, ciò di cui costituisce riprova il fatto che il ricorrente, lungi dal denunciare aporie interne al ragionamento svolto dalla sentenza impugnata, evidenzia profili di contrasto con talune risultanze istruttorie, prospettando, così, vizi che fuoriescono dall'attuale paradigma del difetto di motivazione.
Quanto, invece, alla censura che ipotizza "vizio di sussunzione" in relazione all'applicazione dell'art. 171 cod. strada, o meglio al riconoscimento dell'efficienza (con)causale, rispetto alla verificazione dell'evento dannoso, della condotta tenuta dallo stesso (Soggetto 1) e sostanziatasi nel mancato uso del casco protettivo (censura in relazione alla quale è prospettata la violazione anche degli 1223, 1226, 1227, 2697, 2727 e 2729 cod. civ. e degli artt. 40 e 41 cod. pen.), la stessa risulta inammissibile.
La censura è basata sul rilievo che, secondo il CTU, l'evento dannoso "fu solo attenuato dall'uso del casco" (si è già detto come l'ausiliario del giudice abbia formulato l'ipotesi che la vittima del sinistro indossasse tale dispositivo di protezione), sicché la Corte di Appello, nel condividere l'impostazione del Tribunale secondo cui la condotta del (Soggetto 1) ha contribuito causalmente al verificarsi dell'evento dannoso, avrebbe disatteso le risultanze della CTU.
Sul punto, deve osservarsi che quello dedotto non è, per vero, un vizio di sussunzione, visto che quest'ultimo "consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità" ("ex multis", Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03; Cass. Sez. 1, ord. 14 gennaio 2019, n. 640, Rv. 652398-01; Cass. Sez. 1, ord. 5 febbraio 2019, n. 3340, Rv. 652549-02). In altri termini, il "discrimine tra l'ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione della fattispecie astratta normativa e l'ipotesi della erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa" (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 26 febbraio 2021, n. 5442).
Inammissibile, infine, perché non conforme alla previsione di cui all'art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ., è la censura con cui si prospettata, nella sostanza, l'omessa pronuncia su quanto il ricorrente assume di aver dedotto, in via di subordine, innanzi al giudice di appello, ovvero l'erroneità della generalizzata riduzione del 25% di tutte le somme liquidate a titolo di danno biologico, e non per le sole lesioni riportate al capo da esso (Soggetto 1)
Invero, il ricorrente non riproduce il contenuto del proprio atto di appello nella misura necessaria a consentire a questa Corte l'accertamento che quella censura fu effettivamente devoluta, in via di subordine, al giudice di appello, donde l'inammissibilità della presente doglianza (cfr. Cass. Sez. 2, sent. 20 agosto 2015, n. 17049, Rv. 636133-01).
8.2. Il secondo motivo è inammissibile.
8.2.1. Nel dedurre la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., per avere il giudice di appello omesso di provvedere alla rideterminazione del grado di colpa del danneggiato, il ricorrente assume di aver proposto, implicitamente, tale doglianza, e ciò per il fatto di contestato in radice la propria corresponsabilità nella causazione dell'evento dannoso.
A tale scopo, il ricorrente riproduce uno stralcio del proprio atto di appello, dal quale risulta, però, che egli chiese solo "rideterminarsi gli importi spettanti a titolo di risarcimento di tutti i danni subiti, con condanna alle ulteriori somme ritenute di giustizia".
In questo modo, tuttavia, il (Soggetto 1) non ha rispettato, nuovamente, il principio di autosufficienza del ricorso, giacché tale stralcio dà conto, al più, del fatto che egli abbia fatto questione in relazione al "quantum debeatur", e non anche in merito all’”an" della responsabilità.
Di conseguenza, deve ribadirsi che è "inammissibile, per violazione del criterio dell'autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano "nuove" e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all'esame dei fascicoli di ufficio o di parte" (Cass. Sez. 2, sent. n. 17049 del 2015, cit.).
D'altra parte, corrobora la conclusione nel senso dell'inammissibilità della censura la constatazione che, in tema di responsabilità civile, costituisce "valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità" quella relativa alla circostanza che "un evento dannoso sia stato ritenuto causalmente ascrivibile anche alla condotta colposa del danneggiato" (così Cass. Sez. 3, ord. 22 dicembre 2017, n. 30921, Rv. 647354-01).
8.3. Infine, il terzo motivo è anch'esso inammissibile.
8.3.1. Sul punto, non sembra inutile rammentare - come fatto, del resto, dallo stesso ricorrente - che "il danno patrimoniale futuro, derivante da lesioni personali, va valutato su base prognostica ed il danneggiato può avvalersi anche di presunzioni semplici, sicché, provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, se essa non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità, è possibile presumere, salvo prova contraria, che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura", sebbene "non necessariamente in modo proporzionale", e ciò "qualora la vittima già svolga un'attività lavorativa" (Cass. Sez. 3, ord. 15 giugno 2018, n. 15737, Rv. 649412-01). In relazione, poi, alla determinazione del "quantum debeautur", deve ribadirsi che essa è da compiersi "liquidando questa specifica voce di danno patrimoniale con criteri presuntivi", ma sempre "che il danneggiato supporti la richiesta con elementi idonei alla prova in concreto del pregresso svolgimento di una attività economica o alla prova in concreto del possesso di una qualificazione professionale acquisita e non ancora esercitata" (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 10 luglio 2015, n. 14017, Rv. 636017-01; in senso conforme Cass. Sez. 3, sent. 10 marzo 2016, n. 4673, Rv. 636017-01). Ciò premesso, tuttavia, resta fermo che "stabilire nel caso concreto se il reddito percepito dalla vittima al momento dell'infortunio era o no destinato a crescere, era o no saltuario, era o no occasionale, costituisce oggetto d'un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito" (cfr., in motivazione Cass. Sez. 6-3, ord. 4 maggio 2016, n. 8896, Rv. 639897-01).
Ciò posto, nel caso che qui occupa, la sentenza impugnata, ravvisata la prova del pregresso svolgimento dell'attività di marinaio, ha ritenuto che il danno da lucro cessante, proprio perché non necessariamente proporzionale alla riduzione della capacità lavorativa specifica, fosse da liquidare sulla base di un criterio presuntivo ipotizzante la non stabilità dello stesso, e ciò sulla base del fatto che il (Soggetto 1) avesse conseguito l'abilitazione da marinaio, e il primo impiego con tale qualifica, da appena pochi mesi. Su tali basi, dunque, la Corte territoriale ha condiviso la valutazione del Tribunale di assumere come base di calcolo la retribuzione mensile, operando le opportune capitalizzazioni in ragione dell'età dell'interessato, ma poi applicando all'importo così determinato una riduzione del 40%, proprio in ragione del dubbio sull'effettiva stabilità di quel rapporto.
Il ricorrente censura l'utilizzazione di tale criterio, affermando che il giudice di merito non si sarebbe potuto sottrarre alla seguente alternativa: o ritenere quella di marinaio una occupazione stabile, liquidando allora il danno in base al reddito percepito per tale attività, senza operare decurtazioni; ovvero, all'opposto, ritenere la stessa un lavoro soltanto saltuario, dando così applicazione al criterio del triplo della pensione sociale ex art. 4 della l. n. 39 del 1977.
Tuttavia, dalla sentenza oggi impugnata non risulta che in appello la contestazione, da parte del (Soggetto 1), delle modalità di liquidazione del danno patrimoniale futuro sia stata impostata in questi termini, e cioè assumendo, l'allora appellante, che il lavoro da esso svolto come marinaio presentasse "una certa continuità".
Deve, pertanto, trovare applicazione il principio secondo cui, "ove una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l'onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l'avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa" (Cass. Sez. 2, ord. 24 gennaio 2019, n. 2038, Rv. 652251-02), onere, nella specie, non soddisfatto.
Inammissibile è pure l'altra censura, che investe la decisione della Corte (Omissis) di ritenere ridotta solo del 50% la capacità lavorativa specifica, avendo la sentenza impugnata, a dire del ricorrente, recepito acriticamente, sul punto, le conclusioni del CTU, senza replicare ai rilievi del consulente di parte e disattendendo le risultanze di atti pubblici attestanti un'invalidità pari al 100%.
Al riguardo, infatti, deve notarsi che l'adesione alle conclusioni dell'ausiliario non costituisce la sola ragione del "decisum" della Corte (Omissis), visto che il riconoscimento dell'invalidità nella misura del 50% è stata motivata "anche in base alla non secondaria considerazione che il (Soggetto 1) prima dell'incidente aveva lavorato come marittimo solo per quattro mesi, mentre in precedenza aveva svolto saltuarie prestazioni lavorative come autista presso una Casa di cura privata, cioè tutt'altro".
Il ricorrente non confuta tale ulteriore "ratio decidendi", ciò che rende inammissibili le censure formulate con riferimento (esclusivamente) alla prima. Difatti, qualora "la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l'omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbe produrre l'annullamento della sentenza" (tra le molte, Cass. Sez. 6-5, ord. 18 aprile 2017, n. 9752, Rv. 643802-01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 1, ord. 31 agosto 2020, n. 18119, Rv. 658607-02).
Infine, nessun appunto può essere rivolto alla sentenza impugnata per avere impiegato - come lamenta il ricorrente -il concetto "tecnicamente improprio" di capacità lavorativa semispecifica, individuato dal CTU, e ciò perché la Corte territoriale ha fatto riferimento ad essa solo come "alternativa" prospettata dall'ausiliario, senza, però, farne applicazione.
La censura, dunque, investe un'affermazione che è restata estranea al "decisum" della Corte territoriale.
9. In conclusione, il ricorso va rigettato.
l'obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante
10. Nulla va disposto in relazione alle spese del presente giudizio di legittimità, essendo rimasti la società (Soggetto 3b) [Assicurazioni] e il (Soggetto 2) solo intimati.
11. A carico del ricorrente, stante il rigetto del ricorso, sussiste l'obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all'amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, all'esito dell'adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, svoltasi l'11 luglio 2023.
Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2024.
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