Giurisprudenza codice della strada e circolazione stradale
Sezione curata da Palumbo Salvatore e Molteni Claudio
Cassazione Civile, Sezione seconda, sentenza n. 17027 del 26 maggio 2022
Corte di Cassazione Civile, Sezione II, sentenza numero 17027 del 26/05/2022
Circolazione Stradale - Art. 23 del Codice della Strada - Pubblicità sulle strade - Installazione abusiva e omessa rimozione di cartelli pubblicitari - Autonomia delle sanzioni - Per l'installazione abusiva di cartelli pubblicitari in vista di strada extraurbana principale non è necessaria la diffida alla rimozione sulla base dell'autonomia delle sanzioni confermata dalle modifiche legislative intervenute nel 2021, le quali hanno esteso la necessità della diffida alle violazioni dei commi 4-bis e 7-bis, ma hanno continuato a lasciare fuori dalla portata della diffida la violazione di cui al comma 7 dell'art. 23 CdS che suonano come una mera conferma.
RITENUTO IN FATTO
Nel 2018 la Provincia di Bergamo notifica alla C. s.r.l. un verbale di contestazione per l'installazione di due cartelli pubblicitari in vista di strada extraurbana principale in violazione dell'art. 23 C.d.S., comma 7 e 13-bis C.d.S. (D.Lgs. n. 285 del 1992), concernenti divieti di pubblicità sulle strade, con ingiunzione di pagamento di una sanzione amministrativa pari a Euro 4.745,60. Tutto ciò senza aver dapprima emesso la diffida a rimuovere di cui alla prima proposizione del predetto art. 23, comma 13-bis. La C. presenta opposizione alla sanzione amministrativa, che è rigettata sia in primo che in secondo grado, rispettivamente dal Giudice di Pace e dal Tribunale di Bergamo. Propone ricorso per cassazione la C. con due motivi: il primo, per omesso esame circa un fatto decisivo, il secondo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Resiste con controricorso la Provincia di Bergamo. Con ordinanza interlocutoria del 13/12/2021, la sesta sezione civile di questa Corte rimette la causa alla pubblica udienza per difetto dell'evidenza decisoria che ne giustifichi la decisione in Camera di consiglio ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c. e art. 375 c.p.c., nn. 1 e 5.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. - Il fatto decisivo di cui la C. censura l'omesso esame con il primo motivo è la dicitura "manufatto pubblicitario" su un'autorizzazione in sanatoria, la quale pertanto non avrebbe regolarizzato unicamente il manufatto dal punto di vista edilizio, bensì avrebbe reso legittimo anche lo svolgimento di attività pubblicitaria in vista della strada e indotto il legittimo affidamento in buona fede da parte della C..
Il motivo è inammissibile ai sensi dell'art. 348-ter c.p.c., comma 5, il quale - attraverso il rinvio al comma precedente - esclude che sia ammissibile un motivo ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ipotesi di doppia pronuncia conforme come nel caso di specie (tra le più recenti, in questo senso, v. Cass. 7724/2022). In ogni caso, ove il motivo fosse stato ammissibile, sarebbe stato da rigettare nel merito, in adesione alle argomentazioni svolte dal P.M. (v. sue conclusioni, n. 2).
2. - Con il secondo motivo la ricorrente censura la decisione per violazione o falsa applicazione dell'art. 23 C.d.S., comma 7, 11 e 13-bis C.d.S., per aver ritenuto che la fattispecie di abusiva installazione di cartelli pubblicitari sia distinta dalla fattispecie di omessa rimozione di cartelli pubblicitari e che di conseguenza possa essere sanzionata - nei termini previsti dalla penultima proposizione dell'art. 23, comma 13-bis - senza necessità che sia previamente emessa la diffida a rimuovere di cui alla prima proposizione del predetto art. 23, comma 13-bis.
Il motivo è da rigettare, ma per giungere a ciò occorre dapprima mettere l'argomento che sorregge la censura nelle migliori condizioni per difendersi, quand'anche tale difesa si riveli vana. A tal fine, è opportuno comporre in un quadro esplicativo le disposizioni legislative rilevanti.
3. - L'art. 23 C.d.S., è rivolto a disciplinare la pubblicità sulle strade e sui veicoli. Il comma 1, contiene la disposizione fondamentale: "Lungo le strade o in vista di esse è vietato collocare insegne, cartelli, manifesti, impianti di pubblicità o propaganda, segni orizzontali reclamistici, sorgenti luminose, visibili dai veicoli transitanti sulle strade, che per dimensioni, forma, colori, disegno e ubicazione possono ingenerare confusione con la segnaletica stradale, ovvero possono renderne difficile la comprensione o ridurne la visibilità o l'efficacia, ovvero arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o distrarne l'attenzione con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione (...)". La verifica di queste e delle altre condizioni previste nel prosieguo del comma 1 avviene attraverso il procedimento di autorizzazione ex art. 23, comma 4. Il comma 7 introduce invece un divieto autonomo da quello ex comma 1, poiché assoluto (cioè non sottoposto a condizioni da verificare attraverso il procedimento di autorizzazione ex comma 4) di "qualsiasi forma di pubblicità lungo e in vista degli itinerari internazionali, delle autostrade e delle strade extraurbane principali e relativi accessi" (salvo ipotesi particolari qui irrilevanti). Il comma 11 prevede: "Chiunque viola le disposizioni del presente articolo e quelle del regolamento è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma", attualmente da Euro 430 a Euro 1.731. Il comma 13-bis - introdotto con la L. n. 472 del 1999, art. 30, comma 1, lett. c), nella versione attuale, risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 10 settembre 2021, n. 121, conv. in L. n. 156 del 2021, esordisce disponendo che "in caso di collocazione di cartelli, insegne di esercizio o altri mezzi pubblicitari privi di autorizzazione o comunque in contrasto con quanto disposto dai commi 1, 4-bis e 7-bis (questi ultimi due commi sono stati parimenti introdotti dal D.L. n. 121 del 2021), l'ente proprietario della strada diffida l'autore della violazione e il proprietario o il possessore del suolo privato, nei modi di legge, a rimuovere il mezzo pubblicitario a loro spese entro e non oltre dieci giorni dalla data di comunicazione dell'atto (...)". Di questo comma, per quanto qui interessa, si deve aggiungere la penultima proposizione secondo la quale: "Chiunque viola le prescrizioni indicate al presente comma e al comma 7 è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma", attualmente da Euro 4.833 a Euro 19.332.
4. - Riprodotto il quadro legislativo rilevante, è possibile spiegare l'argomento che sorregge la censura. Esso muove dalla maggiore gravità della sanzione prevista dall'art. 23, comma 13-bis, penultima proposizione, rispetto a quella prevista dal comma 11. Ritiene che tale maggiore gravità discenda dall'articolazione della condotta riprovata in un duplice aspetto, in cui all'abusiva installazione della pubblicità si aggiunge l'inosservanza della diffida a rimuoverla, mentre la sanzione di cui al comma 11, colpisce la sola abusiva installazione.
Secondo la ricorrente, questa conclusione troverebbe conferma in una interpretazione che muove dall'idea grammaticale che la lettera "e" interposta tra due parole abbia immancabilmente la funzione di congiungere in un'unica occorrenza i fenomeni indicati da quelle parole. In questo caso si tratterebbe della lettera "e" di cui alla penultima proposizione del comma 13-bis ("Chiunque viola le prescrizioni indicate al presente comma e al comma 7 è soggetto alla sanzione amministrativa (...)"; corsivo/sottolineato nostro). La ricorrente constata che, nel caso de quo, la sua condotta è stata sanzionata ai sensi di tale disposizione, senza che (il fatto è incontestato) sia stata previamente intimata la diffida a rimuovere (cioè il fenomeno indicato dalle parole precedenti la "e" cit). La ricorrente conclude per l'erroneità dell'interpretazione di tali disposizioni, sottesa alle pronunce dei giudici di prima e di seconda istanza che, pur in difetto di diffida, hanno confermato il provvedimento sanzionatorio della Provincia rilasciato sulla base della norma che dispone la sanzione più grave.
5. - L'interpretazione della ricorrente presuppone che - al fine di irrogare la sanzione più grave in caso di contestazione dell'abusiva installazione - sia necessaria la diffida, ma ciò è puntualmente smentito dall'esordio del comma 13-bis, che limita la necessità di quest'ultima - oltre che al difetto di autorizzazione (che non entra in gioco in questo caso) - alle violazioni dei commi 1, 4-bis e 7-bis e non anche a quella del comma 7.
Ciò risalta dopo la modifica apportata dal D.L. n. 121 del 2021, conv. in L. n. 156 del 2021, ma - come ha ben argomentato il Tribunale di Bergamo nella sentenza in epigrafe (ove si accenna persuasivamente all'inasprimento sanzionatorio che il legislatore ha disposto nel 2003 in coerenza con il carattere assoluto del divieto ex comma 7) - era perfettamente vero anche prima, perché il rinvio era comunque rivolto solo al comma 1 (e non anche al comma 7).
Si dischiude così la prospettiva di un rigetto del ricorso che non entra in contraddizione rispetto a Cass. 34583/2021, cioè il precedente tra le stesse parti che il P.M. menziona nelle sue conclusioni. Infatti, nel caso attualmente sub iudice si tratta della contestazione della originaria abusiva installazione (che deve sfociare nell'ordinanza ingiunzione senza l'intermezzo della diffida alla rimozione). Viceversa, nel precedente appena citato si tratta di sanzione per omessa rimozione, che presuppone la diffida. In tale caso di specie il problema era che "nello stesso verbale era preannunciato l'invio di una diffida per la rimozione dell'impianto pubblicitario", che invece non era mai stata rilasciata.
In altre parole, nel caso sub iudice si tratta proprio della contestazione del solo obbligo originario di non facere, di astenersi dalla installazione abusiva, che - nei casi ex art. 23, comma 7 - è vietata seccamente, senza le condizioni previste dall'art. 23, comma 1 (la cui ricorrenza è da verificare attraverso il procedimento di autorizzazione di cui all'art. 23, comma 4). In questo caso non è necessaria la diffida alla rimozione, cosicché la sentenza oggi impugnata in cassazione è da confermare sulla base dell'autonomia della sanzione prevista nell'art. 23, comma 7. Tale autonomia - giova ripetere - è ulteriormente confermata dalle modifiche legislative intervenute nel 2021, le quali hanno esteso la necessità della diffida alle violazioni dei commi 4-bis e 7-bis, ma hanno continuato a lasciare fuori dalla portata della diffida la violazione di cui al comma 7. In relazione al caso sub iudice tali modifiche suonano come una mera conferma.
Né l'odierna pronuncia urta contro Cass. 167/2016, parimenti citata dal P.M., poiché il precedente del 2016 afferma che la citata "previsione sanzionatoria secondo la quale: "chiunque viola le prescrizioni indicate al presente comma e al comma 7 è soggetto alla sanzione amministrativa..." è riconducibile, per quanto qui interessa (il corsivo è nostro), alla violazione commessa da chi sia inadempiente all'obbligo di rimozione di cui alla diffida preventivamente comunicatagli".
Con ciò si palesa anche l'inconsistenza dell'argomento letterale che si fonda sulla lettera "e" della penultima proposizione del comma 13-bis, invocato dalla ricorrente a fondamento del suo motivo di ricorso. Esso è colpito dal difetto di obbligo di diffida, sancito dall'esordio dello stesso comma. Il diritto rinviene nella lingua e nelle regole grammaticali di quest'ultima il veicolo di espressione, ma già lo studio classico della dottrina tedesca della metà del secolo XIX che costituisce la tradizionale base di partenza della teoria della interpretazione della legge nei sistemi giuridici Europeo-continentali aveva collocato immediatamente dopo quella "grammaticale" l'interpretazione "logica" della legge, intesa come quella che inserisce le parole nella "struttura di pensiero" cui esse sono chiamate a dar voce. Pertanto, le regole grammaticali sono da applicare con necessaria flessibilità, che in questo caso è consentita in modo plausibile dal diffuso riconoscimento che la lettera "e" non debba avere immancabilmente un valore congiuntivo; non lo debba avere, in particolare, quando la struttura del pensiero richieda altrimenti. Le regole grammaticali sono al servizio del diritto, non è quest'ultimo al servizio delle regole grammaticali.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
La ricorrente è condannata al rimborso delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 1.500,00, oltre a Euro 200 per esborsi, nonché spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 5 maggio 2022.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2022.
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